Si entra con svogliatezza in gallerie e musei minori o poco noti, non è così? Vi invito, invece, a provare a varcare gli ingressi di questi luoghi con curiosità, potrebbero racchiudere la chiave per delle storie interessantissime. Ad esempio, è visitando la GAMM di Messina presso il Palacultura che, attratta da alcuni acquerelli firmati con uno strano carattere squadrato, somiglianti ad ideogrammi asiatici, ho scoperto la storia di una donna unica. Il nome riportato in calce era quello di O’Tama Chio Hara Ragusa, quello di un’artista arrivata da lontano per amore di un uomo, che finì per amare anche sua terra di origine: la Sicilia.

Kiyohara Tayo, detta O’Tama (Sfera di Cristallo Lucente), nasce nella Tokio del 1861, in un Giappone che appena 7 anni dopo, col governo Meji si aprirà alla cultura occidentale. Fino ad allora la corrente artistica che dominava incontrastata il panorama nazionale era quella del Ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante), pittura tradizionale basata su soggetti di genere derivati dalla quotidianità, in cui le campiture di colore delicate restano piatte, i tocchi lineari e le ombreggiature praticamente assenti. La piccola impara prima a dipingere che a scrivere, padroneggiando lo stile già a 11 anni. Il padre, Sadakichi Kiyohara, cerimoniere al tempio Zojoji, non avendo avuto figli maschi cercò di educare le sue due figlie in maniera che se la potessero cavare da sole, formandole e vestendole come se fossero piccoli ometti e assicurando loro l’istruzione. Durante una sessione di pittura all’aria aperta la vita di O’Tama cambiò con un incontro casuale.

Nel 1877, lo scultore palermitano Vincenzo Ragusa, mentre passeggiava a cavallo nei pressi del tempio, venne attratto da questa ragazza che nel giardino della sua casa era intenta a dipingere. Ma che ci faceva un artista palermitano in Giappone? Ragusa fu selezionato all’accademia di Brera come scultore della delegazione italiana selezionata per istituire la prima scuola d’arte governativa in Giappone sotto la supervisione del Ministero dell’Industria, fortemente voluta dall’imperatore Mutsuhito. Insieme a Ragusa arrivarono dall’Italia Antonio Fontanesi per la pittura, Giovan Francesco Cappelletti per l’architettura, a comporre lo staff della scuola Kobu inaugurata il 6 novembre del 1876. Loro furono gli ambasciatori dell’arte occidentale in Giappone, i primi a mostrarla, raccontarla e insegnarla.
O’Tama e Vincenzo cominciano a frequentarsi e confrontare le proprie culture: lui le mostra i suoi bozzetti chiaroscurati, lei lo aiuta a scegliere gli oggetti più adatti alla sua collezione di artigianato giapponese. A 17 anni sarà la prima orientale a posare per l’opera di un occidentale. Nonostante i 20 anni di differenza, tra i due nasce l’amore.

Al termine dell’incarico, nel 1882, Vincenzo deve rientrare in Italia e lo fa con un progetto ben preciso in testa, aprire a Palermo la prima scuola di arti applicate orientali d’Europa. Al suo seguito oltre a Tama, la sorella O’Chiyo, ricamatrice, e il cognato, maestro laccatore, Einosuke Hideaki.
L’accoglienza in Sicilia fu tiepida. Dal punto di vista familiare, la suocera si mostrò sempre un po’ sospettosa nei confronti della fiamma del figlio, il Signor Ragusa invece la accolse con più affetto e la loro confidenza è palpabile in un ritratto che Tama gli fa, mentre è leggermente assopito. I dettagli e cura della fisionomia narrano la stima che aveva per il suocero. L’alta società palermitana stessa non fece salti di gioia al loro arrivo in città, molto distratta da uno stile liberty in piena esplosione e da gusti vistosi e un po’ provinciali.

Dopo anni in bilico, ad insegnare un mestiere ai ragazzi, come un reale istituto professionale, la scuola dovette chiudere a causa dei debiti maturati per il difficile reperimento delle materie prime e anche nei confronti del personale docente stesso. I cognati di Vincenzo Ragusa dovettero tornare in Giappone, ma prima che partissero lo scultore ci teneva a saldare i loro stipendi arretrati: per farlo vendette in blocco tutta la sua collezione di artigianato giapponese al museo Pigorini di Roma, dove ancora oggi possiamo ammirarne ogni oggetto.
Se la sorella e il marito erano pronti al ritorno, O’Tama non ne aveva nessuna intezione. Lei si integrò perfettamente nell’ambiente culturale cittadino: lavora come illustratrice reporter e diventa direttrice della sezione femminile dell’istituto d’arte palermitano che oggi ancora porta il suo nome. Inoltre cominciò a farsi delle amicizie nella Palermo bene, come quella molto stretta con Rosa Mastrogiovanni Tasca D’Almerita, moglie del Principe Pietro Lanza Scalea. Insomma, dalla Sicilia non si voleva proprio schiodare.
Ma come giustificare in società ed in famiglia, la convivenza con Enzo Ragusa? No Problem! O’tama si convertí al cristianesimo, facendosi battezzare dalla sua amica con nome di Eleonora (nome della figlia perduta di Rosa), e sposò lo scultore.

La loro vita palermitana proseguì tra commissioni, lezioni pubbliche e private, rapporti e amicizie alimentate dal loro talento che più volte li portò a ricoprire ruoli determinanti nell’ambito di concorsi regionali e nazionali. Vincenzo Ragusa riuscì anche a realizzare uno degli obbiettivi a cui teneva più di ogni altra cosa al mondo: aggiudicarsi la vittoria al concorso per la Statua di Garibaldi battendo il suo rivale Mario Rutelli, ed onorando la sua breve ma infuocata carriera da garibaldino. I due si distinsero anche per le opere di carità: i coniugi fondarono l’associazione di volontariato Legione della Croce Verde nel 1885 per prestare aiuto ai malati di colera. Al loro merito furono conferite delle medaglie al valor civile.
A fianco del marito, l’arte di O’Tama cambiò, si avvicinò all’occidentale. Praticò più di frequente la pittura dal vero, i suoi colori non rimasero piatti, i suoi soggetti non più statici. Più tempo passava più la sua voglia di sperimentare aumentava, e provava nuove tecniche, nuovi supporti nuovi soggetti. Il suo repertorio è estremamente vario e vasto, il suo essere poliedrica le fece tentare dal pastello alla ceramica, si applicò su parete con l’affresco o nella decorazione di splendidi ventagli.
Nella notte del 28 Dicembre del 1908, MESSINA venne rasa al suolo dal TERREMOTO

Dopo quasi un anno (9 Novembre 1909) O’Tama e Ragusa si recarono in città per documentarne lo stato e dare soccorso ai sopravvissuti; alcuni di loro, rimasti senza un tetto, sono stati ospitati a Palermo dai coniugi nella loro casa. Al loro arrivo i giornali locali li accolsero con gran calore. Durante la permanenza messinese, da brava reporter, Eleonora ritrae scorci di devastazione in quattro finissimi acquerelli. Nel suo articolo sulla Gazetta, il giornalista Silvio Papalia Jerace racconta:
“Da qualche giorno trovasi di passaggio in Messina, spinti dal nobile sentimento dell’arte, il Prof. Ragusa, autore della statua di Garibaldi in Palermo e la sua signora, valentissima pittrice giapponese. I due bravi e buoni artisti sono dietro a rilevare, in pittura, i monumenti, i ruderi, gli avanzi preziosi delle bellezze antiche della nostra Messina in macerie. E la loro tavolozza pregevole, che ha già fornito parecchi quadri che sono insieme dei brani gloriosi di storia, è, disgraziatamente incalzata dall’azione devastatrice delle mine e dei picconi, che, dovendo compiere l’opera inconsapevole della natura, sarà gran ventura se risparmieranno i nostri tesori artistici. Il lavoro in pittura cui sono intenti, il Prof. Ragusa e la sua valorosa consorte è per se solo patriotticamente ed artisticamente grande e gentile. Quando si scriverà la storia del terremoto che abbatté la Regina del Peloro, i quadri odierni, veri palpitanti di vita e coronati di lacrime, la illustreranno a meraviglia. […]”
Silvio Papalia Jerace, giornalista per la Gazzetta – 09 Novembre 1909

Come vi dicevo all’inizio dell’articolo, è attraverso questi 3 acquerelli ho scoperto la storia dell’artista giapponese, oggi esposti alla GAMM del Palacultura. Queste finissime vedute mostrano brandelli della città, macerie, pozzanghere, ritratte con la stessa dignità con cui si vuol carpire ogni dettaglio di una veduta della città eterna. A far capolino tra i ruderi ancora qualche figura umana, simbolo della vita che persiste e continua. Scorci urbani dettati da relitti di architetture di valenza simbolica, quasi fotografie: Porta Messina, apertura della Palazzata che dava sulle vie principali; il Portico delle Poste, una delle tre arcate dal quale si accedeva agli uffici, edificio di appena 15 anni prima; Piazza Ottagona, dominata dalla ancora esistente Fontana Falconieri del 1842. È cosi che oggi recuperiamo l’immensa storia di Messina, da quei pochi resti del sisma che la successiva incuria ha risparmiato. Nei ritratti della città devastata ho trovato tanta sensibilità, molto affetto, perché di fotografie di macerie ne abbiamo viste tante. Quello che O’Tama ha fatto è stato prendere un pennello e accarezzare la carta con del colore restituendo l’atmosfera e il fascino che la città doveva avere originariamente. Anche il fatto che abbia deciso di abitarle le macerie, anche se con una piccola figura umana, un po’ vuol comunicare che la città non è morta: c’è qualcuno e la vita continua.

Nel 1924 “Per una fortunata combinazione […] gli acquerelli dei coniugi Ragusa sono finiti nella sala dell’Archivio Storico di Messina” racconta ancora Papalia Jerace, che seguì il destino delle opere fino al 1951, anno in cui volle celebrare il 43° anniversario del sisma descrivendole accuratamente, quasi portandoci per mano. Però, c’è un però: il giornalista descrive 4 opere non 3.
“Oggi sono nei locali dell’Archivio Storico del Comune, sono visibili quattro stupendi acquerelli eseguiti da Eleonora Ragusa. […] E questi particolari risaltano ancor più nel terzo quadro, quello che rappresenta l’angolo di Via Cardines – Via I Settembre. Ai lati sono le due fontane semidirute. In luogo della fontana di sinistra è oggi il Colleggium Clericorum. Infondo a sinistra il famoso PAlazzo Puleo, ricco del celebre motto ” Fatti precorrendo idee” con quel che segue. […]”
Silvio Papalia Jerace, giornalista
Di questo quarto acquerello ci è rimasta solo questa descrizione, si sono perdute le sue tracce con il succedersi di eventi storici e traslochi di sede. Ritraeva quel che si può dire fosse il corrispettivo dei 4 Canti palermitani, l’incrocio delle due strade principali della città, a cui, agli angoli erano poste Quattro fontane, oggi due sono state ricollocate, altre due ci accolgono all’ingresso del Museo Regionale Interdisciplinare di Messina. Spero che chiunque sappia qualcosa del destino di questo dipinto e stia leggendo questo articolo, possa darci nuove informazioni per recuperarlo e restituire questo tassello di memoria. Ma torniamo alla storia di Eleonora…
O’Tama continuava la sua normale attività di insegnante e pittrice a Palermo, vive serenamente, fin quando viene a mancare Vincenzo nel 1927. Cominciano per lei le difficoltà economiche, per quanto non le mancasse il lavoro, sembra abbia venduto degli arredi e subaffittato una stanza della casa per tirare a campare. In Giappone invece la sua fama crebbe a dismisura grazie alla pubblicazione della storia della sua vita a puntate in un quotidiano. Invia quindi delle opere a Tokio e Osaka, dove vennero allestite due personali in suo onore, nel 1931.
Lo stesso anno arriva in Sicilia Hatsue, la figlia della sorella O’Chiyo, ormai defunta. O’Tama è felicissima di accoglierla ma quasi non ricorda più la lingua giapponese, ed è diventata più brava nel friggere panelle che nel servire il te. Insieme viaggiarono nel sud Italia fino a Napoli per mesi, provò in ogni modo a far innamorare la nipote dell’Italia e riuscì nell’intento, ma lo scopo della visita era un altro: convincere la zia siciliana di adozione a tornare in Giappone. La cultura giapponese sappiamo che pone disonore e vergogna su chi non riesce nel suo scopo, specie se prefisso dalla propria famiglia. O’Tama dopo tanta resistenza decide di partire. Facendo i bagagli scegli quale delle sue opere portare con se e quale resterà a Palermo donandola agli amici.
A Tokio la sua attività riprese a pieno ritmo, tra mostre e commissioni private, fino alla sua morte il 6 Aprile del 1939. Secondo le sue ultime volontà, fu cremata e volle che una parte delle sue ceneri fosse custodita nel tempio di famiglia Chōgen-ji, l’altra metà volle che riposasse accanto al marito nella loro tomba del Cimitero di Santa Maria ai Rotoli di Palermo. Il suo ultimo desiderio, fu esaudito solo nel 1985 per mano della nipote.

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Questo articolo è un approfondimento al materiale che ho condiviso sui social. Ho voluto fortemente scriverlo per ringraziare Antonina Barbaro che, visto il mio lavoro di divulgazione su questa eccezionale donna dimenticata, mi ha fornito spontaneamente dell’altro preziosissimo materiale sulla permanenza dei coniugi Ragusa a Messina, frutto delle sue appassionate ricerche. Voglio inoltre ringraziare Claudia Mangano di LetteraEmme che ha dedicato un articolo al mio punto di vista sulle opere messinesi di O’Tama. Clicca qui per leggere l’articolo.
Bibliografia:
- O’tama e Vincenzo Ragusa – Echi di Giappone in Italia. Maria Antonietta Spadaro. 2008 Kalòs
- Kalòs rivista anno III n°1 Giugno 2021
- Dal Patrimonio Comunale di Messina alla Gamm dentro e fuori le mura – Catalogo Generale delle Opere. AA. VV. Saggio di Giampaolo Chillè. 2019 Magika