“Mamma li turchi!”, “sentirsi presi dai turchi” sono due delle locuzioni quotidiane ereditate da storie in cui gli ottomani non portavano nulla di buono! Le frequentissime scorrerie saracene che subirono le flotte e i litorali dell’occidente mediterraneo nei secoli, hanno segnato le nostre tradizioni, arrivando ad identificare il popolo turco come “l’uomo nero” o “il lupo cattivo” che fa paura ai bambini. Ma dietro questa precaria condizione storica ci sono complessi meccanismi politici, ma soprattutto economici.
La storia che voglio raccontarvi, riguarda l’ottomano più temuto nei mari del XVI secolo, spietato ed efferato, ma con grosso punto debole: la nostalgia per la mamma! Il suo nome è Sinàn Bassà, storpiatura italianizzata del più complesso Ciğalazade Yusuf Sinan Paşa, in origine Scipione Cicala. Le vedo le vostre facce dubbiose, calma, ora vi schiarisco le idee.
Siamo nella seconda metà del XVI secolo, periodo i cui a contendersi le rotte commerciali e le ricchezze del Mediterraneo erano due fazioni ben definite: Genova e Spagna contro Francia e Venezia. Che tra la ligure e la Serenissima non scorresse buon sangue si sapeva già dall’epoca delle Repubbliche Marinare, ma la situazione si inasprì nel momento in cui Venezia cominciò a godere di una sorta di immunità dagli attacchi degli islamici, grazie ad accordi commerciali e simpatie politiche. La Sicilia e la Calabria erano, sì, sotto la dominazione spagnola ma a regger la borsa dei denari erano i genovesi, e non si creavano scrupoli nel tenerla in pugno. L’impero ottomano faceva una gran paura all’epoca, era una minaccia perenne. Così i cristianissimi Regno di Spagna e Repubblica di Genova si allearono schierando le loro navi migliori e cominciarono una campagna di colonizzazione del nord Africa, teoricamente per portare la parola di Dio agli islamici, ufficialmente per accrescere ricchezza con scali e nuove rotte commerciali. Esemplare è la battaglia di Tunisi.
Alla conquista della capitale tunisina partecipò un personaggio molto noto e ammirato dal re Carlo V e dall’ammiraglio Andrea Doria: Visconte (o Vincenzo) Cicala, corsaro e condottiero la cui fama precedeva i suoi approdi. – DISCLAMER! Esser corsari e far la guerra di corsa non è da confondere con la pirateria: chi riceveva la lettera di corsa da un governo otteneva la possibilità di attaccare navi della fazione opposta (anche mercantili) in piena legalità, purchè una percentuale del bottino andasse allo Stato che l’ha rilasciata. Gli attacchi dei pirati, invece, erani veloci e non intercettabili, perché clandestini.
Quando il mitico galeone Cicala arrivava in porto era sempre una festa, l’immenso carico razziato rappresentava ricchezza in entrata per la città. Proprio durante l’impresa nordafricana rapì un’avvenente donna tunisina la figlia del Bey cittadino. La fece galantemente schiava poi se ne innamorò e, non prima che si convertisse al cristianesimo, la prese in sposa. Il nome che scelse durante il suo battesimo è Lucrezia. Dalla loro unione nascerà una famiglia numerosa (2 figlie femmine e 3 maschi) che crescerà a Messina, città in cui avevano scelto di stabilirsi.

Era, quindi quello falcato il porto dal quale Visconte partiva per la guerra di corsa e al quale tornava carico di ogni ben di Dio, ed il frutto delle sue razzie influì positivamente anche sull’arte della città. Per anni navigò, distinguendosi più volte in battaglie al fianco della flotta iberica. Nel momento in cui però Filippo II decise di mandarlo in pensione non la prese molto bene: Visconte e suo figlio Scipione partirono per la Spagna per chiedere udienza al sovrano, la sua intenzione era di comprare un proprio galeone e proseguire la sua carriera in mare, ma non senza l’approvazione reale.
Ironia della sorte, furono attaccati a largo di Marettimo da Dragut, ammiraglio corsaro ottomano a cui Visconte doveva la sua unica fuga rocambolesca da una battaglia, quella di Djerba. Padre e figlio vennero fatti prigionieri all’inizio del 1561. Visconte venne rinchiuso in carcere, Scipione fu messo a remare nelle galee. Per anni, ogni potenza occidentale inviò delegazioni proponenti accordi e compromessi in cambio della loro liberazione (persino quella veneziana!). Dragut, dato il grande interesse nei loro confronti e la fama di gran navigatore del Cicala Senior, pensò di portarli a Costantinopoli alla corte di Solimano, come prezioso bottino di guerra.
Il sultano nota il diciannovenne Scipione, bello e avvenente, se ne invaghí e gli propose di risparmiarlo dalla schiavitù e di liberare il padre, nel casi in cui accetti di entrare a far parte dei suoi prediletti a corte per provare a educarlo. Scipione accetta, ed ogni giorno insite per vedere Visconte, ma non sa che era già morto (forse avvelenato) nelle celle della Fortezza delle Sette Torri il 12 dicembre del 1564.
Quella di rinnegare la propria cultura e religione per aver salvarsi da prigionia e schiavitù, era una pratica normalmente in uso di quei tempi in Turchia. In più, a differenza delle monarchie europee, nell’Impero Ottomano non è mai esistito il concetto di discendenza diretta o di stirpe nobile, quindi il trono non spetta alla progenie del sultano a prescindere. Ciò consentì a chiunque seppe sgomitare tra gli intrighi di corte, di poter ascendere alla classe dominante.
Messo da parte il rancore per l’inganno, Scipione rinnega patria e religione, cambia il suo nome in Ciğalazade Yusuf Sinan Paşa, senza dimenticare il suo passato ( Ciğalazade sta per Figlio di Ciga, Cicala in genovese) e ottiene da Solimano una degna sepoltura per il padre in una chiesa cristiana a Galata. L’occidente da allora lo etichetterà con l’epiteto di rinnegato.
La figura di Sinàn Bassà viene ricordata prevalentemente nella cultura popolare siciliana e ligure. Fabrizio De Andrè, che spesso attinse dal patrimonio storico e tradizionale per i suoi componimenti, gli dedicò una canzone in dialetto. Potrete ascoltarla a questo link, troverete in basso testo e traduzione. Faber immagina un dialogo in cui il Cigä giustifica il suo cambiamento di vita dicendo “…E digli a chi mi chiama rinnegato che a tutte le ricchezze all’argento e all’oro Sinán ha concesso di luccicare al sole bestemmiando Maometto al posto del Signore”
Scipione si rivela incredibilmente abile nella scalata sociale e solo 10 anni dopo la sua conversione, 1574 era a capo di 30 piccole galee e 40 vascelli turchi a largo di Tunisi. Già dalla sua prima vittoria dalla parte dei “cattivi”, si evinse la ferocia con cui massacrò tutti i difensori di La Goletta dopo 5 settimane di assedio. Lasciò in vita solo gli ufficiali per ricavarne un lauto riscatto e purché raccontassero al mondo occidentale che aveva un nuovo nemico. Fu anche al comando dell’esercito di terra, a guidare giannizzeri, distinguendosi per crudeltà e violenza.
Sembra che oltre alla fama di spietato distruttore abbia avuto anche quella di arrivista e avido. Dalla serenissima, l’ambasciatore Girolamo Cappello, lo descrive come sensibile all’ “aura popolare facilmente smargiasso e fanfarone“, “la sua temerità è tale che egli crede di porre in spavento tutto il mondo con il solo nome suo“. Un altro veneziano, il Morosini lo ricorda “Ricco a maraviglia” e racconta come avesse usato con spregiudicatezza oro e donativi a fini di carriera. Ma non s’accontenta solo della potenza e del prestigio: “huomo avidissimo“, “per natura avarissimo“, di “natura rapace“, è ossessionato dalla brama di possesso. E’ quindi vero quel che si dice dei genovesi? 😀
Che abbia profuso somme enormi per diventare quapudán (capitano delle flotte turche), è vero: alla corte turca corruzione e favoritismi erano il mezzo principale con cui si avanzava di carriera, i denari spesi per oliare gli ingranaggi burocratici sono da considerare come un investimento.
Ma nel suo intimo le radici lo tradiscono più di una volta. Da genovese non ce la fa proprio a stare dalla parte di Venezia, e più volte si scaglia contro i loro bastimenti saccheggiando e depredando. Quindi anche il sultano stesso lo considerava una specie di mina vagante, imprevedibile nel suo agire.
Gli intrighi di palazzo si infittirono quando dovette vedersela con la madre del nuovo sultano, Murad III, la splendida Nur Banu, che in realtà era la meravigliosa e molto intelligente nobile veneziana Cecilia Baffo, rapita dai turchi poi convertitasi e diventata favorita del sultano. A quanto pare i sentimenti si manifestano con i rapimenti in quel periodo! Neanche a dirlo, a Nur Scipione non stava affatto simpatico, e cominciò a mettergli i bastoni tra le ruote, minando la sua credibilità a corte ed indebolendone i consensi.

Per rispondere a queste insidie il Cicala fece la mossa che Nur non si aspettava: sposò la nipote del Sultano, nonchè figlia del Gran Visir. E che fa quando, dopo qualche tempo, muore la moglie? Sposa la cognata, sorella della defunta. Conosceva così bene le dinamiche della corte da cadere sempre in piedi come i gatti!
Ma l’unica donna per cui batteva il cuore del nostro Sinan Passà era sua madre, con cui dopo tempo riuscí ad allacciare un rapporto epistolare. Così dopo la campagna di Persia in cui accrebbe la sua fama di fine, acuto e coraggioso comandante, ottenne nel 1591 il ruolo di Qapudan Pascià (ammiraglio della flotta turca). Ricoperta questa carica ricomincia le sue scorrerie corsare nel Mediterraneo, imbattendosi a volte anche nei propri fratelli che avevano cominciato la carriera di naviganti per contrastarlo. Filippo infatti era stato messo dal regno asburgico a capo di di una squadra di galee creata appositamente per dargli la caccia. Ma con lui Scipione ci andò piano e dopo ogni scontro si mandavano e ricambiavano i saluti della mamma. Finchè il Qapudan non decise di andare a portarglieli di persona.
1594. 70 galee arrivano nello Stretto di Messina. Il terrore dei mari chiede con una lettera indirizzata al Vicerè, di poter rivedere la madre. La risposta? Un due di picche. La reazione? La versione ufficiale riportata da una lettera scritta a Lucrezia, vede uno Scipione che si giustifica con queste parole ”mi credevo che vi haviano posto in carcere…” , il fatto che abbia attaccato la dirimpettaia Reggio Calabria, incendiando il centro cittadino e i paesi della costa.
Ma le cronache raccontano di una razzia soft. Un pò di cose non quadrano: i giannizzeri sbarcarono fecero un po’ di casino e si ritirarono poco dopo; la gran parte dei calabresi riuscirono a fuggire portando con se la maggior parte dei loro beni più preziosi; la flotta spagnola arrivò con un ritardo madornale a difendere lo Stretto. La tesi più accreditata dagli storici è che quel attacco fosse una messa in scena, e che con il rifiuto del permesso Scipione abbia ricevuto anche una mazzetta. Il Qadupàn era andato con le migliori intenzioni, ma nel momento sbagliato. L’impero iberico, aveva appena subito la sconfitta dell’Invincibile Armata dall’Inghilterra e si trovava in uno stato di grande debolezza. Ma Scipione doveva render conto a Costantinopoli, e un’accordo con i cattolici era fuori discussione. Così per portare i bei voti a casa pensò di simulare un attacco, colpendo però la città che meno avrebbe comportato danno a Filippo II. Ma il sultano non ci è cascato e il suo consenso calò ugualmente.
Archiviò questo episodio, e rafforzò la solidità della sua reputazione con un’altra prova da stratega nella battaglia di terra della pianura ungherese. Nel momento in cui l’esercito turco fu in difficoltà, riuscì a risollevarne le sorti con un attacco a sorpresa che schiacciò le truppe asburgiche proprio mentre cantavano vittoria. La nomea di grande condottiero è salva!

Ma Sinan Bassà desiderava ancora andar per mare e raggiungere la Sicilia, e nonostante, per gratitudine, gli sia stata offerta la carica di Gran Visir, lui la rifiutò in luogo di quella di Qapudan Pascià. Nel 1598 era già a largo di Pellaro, in Calabria. Stavolta la difesa spagnola si destò per tempo, ma anziché l’intera flotta, videro avvicinarsi alla città solo una galea con un portavoce con insegne pacifiche, che porta tre lettere indirizzate al Vicerè, all’Ammiraglio delle navi reali e una per Lucrezia. Quest’ultima dai toni imploranti e commoventi
“son partito… et più non vi ho visto. Desiderìa… prima della morte vederve… S’adesso vi manderanno acciò complisse secondo il gran desiderio che io tengo di vedervi, e che non resti in questo mondo privo della vista vostra. Io vi prometto rimandarvi, sicché se voi m’amte, come io amo a voi, cercarete licentia di venirmi a vedere”.
Stavolta l’intenzione non era quella di accontentarsi si uno scarso bottino, e giocò il tutto per tutto offrendo addirittura il proprio figlio Mahmud come ostaggio temporaneo per la durata dell’incontro. Luigi Natoli racconta così questo episodio:
“questa volta Scipione Cicala non era il tremendo corsaro che si accostava a Messina avido di sangue e di bottino: era invece il figliuolo, che, vinto da un prepotente bisogno dell’anima, veniva a cercarvi la sua genitrice, Lucrezia, la cui dolce immagine dopo trent’anni gli tornava assidua alla mente e lo visitava ne’ sogni. “
Luigi Natoli
Dopo tre giorni di trepidazione, il Viceré Duca di Macqueda gli inviò il benestare, a patto che insieme ai suoi cari, avrebbe fatto salire a bordo anche due prelati che avrebbero provato a riconvertirlo alla cristianità. Piccola clausola che non infastidì Sinàn. L’incontro è clamoroso, e allo stesso tempo d’intimo e commovente. La flotta turca si presentò splendida e rivestita di colori e fiori. Per salutare la grande la galea che accompagnava Lucrezia, i fratelli e i nipoti di Scipione, il boato di una cannonata a salve, udita a chilometri di distanza ma per una volta gioiosa. Scipione si sporse dall’ultimo gradino della scala di fuoribordo per abbracciare piangente la madre. Roba che neanche le carrambate della tv possono eguagliare!
“La barca giunse sotto la scala, Sinàn (Scipione – ndr) dalla cima stese le braccia, gridando: Madre! La donna alzò la testa. Sinan impallidì, le sue labbra rimasero stese in avanti, la sua bocca non proferì più alcuna parola; non era, no, la giovane bella e vigorosa che egli aveva lasciato: era una vecchierella col volto rugoso e lacrimoso, coi capelli bianchi come l’argento, la quale, tremando per gli anni e la commozione saliva la scala della galera”.
Luigi Natoli
Il salto nel passato per Scipione fù totale: oltre alle facce amate dei familiari si immerse nei profumi della sua infanzia messinese gustando frutti, dolci e specialità locali. Ma come per ogni cosa eccezionale, il tempo fu tiranno. Di fatto ci fu, ben presto, il patetico definitivo commiato: “alla partenza si abbrazzarono e stettiro cossì un bon pezzo per tenerezza, piangendo tutti dui”, annota un cronista del tempo. Breve parentesi, ben presto riassorbita dal proseguimento della rotta. Fatto sta che comunque molti zecchini furono da Scipione regalati alla mamma e alla famiglia.
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Sitografia e Bibliografia
https://www.treccani.it/enciclopedia/scipione-cicala_(Dizionario-Biografico)/
Domenico Montuoro – I CIGALA, UNA FAMIGLIA FEUDALE TRA GENOVA, SICILIA, TURCHIA E CALABRIA
https://www.metaprintart.info/cultura-grafica/zena-la-bella/38032-di-corsa-dalla-mamma/
Alessandra Migliorato – L’ASSUNTA DI GIOVAN ANGELO MONTORSOLI:UN FRAMMENTO RITROVATO
bell’articolo, noto un punto controverso. Il padre Vincenzo secondo altre fonti non è morto in terra musulmana ma a messina dopo essere stato rilasciato per aver pagato il riscatto
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Si, come dici tu ci sono fonti discordanti. La più riportata è la versione della morte in Oriente. Chissà che non si scopra qualcosa di più determinato in futuro. Grazie per il tuo commento
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