Vi va di assaggiare il mediterraneo? Non è un invito a pranzo, non fate quella faccia delusa. Il mare magnum non è solo quello della dieta più sana del mondo ma è anche quello delle culture più antiche, degli interscambi più intricati e delle eccellenze intellettuali. Tra terre così diverse e complesse, teatro di guerre e rotte commerciali, era inevitabile si creasse un macroclima culturale così unico. L’abbondanza di vestigia antiche ne testimoniano il passato, progetti odierni ne preservano le tradizioni e disegnano un futuro dalle radici salde. Il centro di questo meraviglioso bacino, punto nevralgico tra 3 continenti, cade sullo Stretto di Messina.

Sull’estrema punta siciliana di Capo Peloro, trova la sua ubicazione il Parco letterario Horcynus Orca (dal romanzo di Stefano D’Arrigo) e lo anima con manifestazioni culturali estive, teatrali e cinematografiche, e progetti interculturali. A cura della fondazione è stato allestito il MACHO (Museo Arte Contemporanea Horcynus Orca), il cui nome, per quanto accattivante, è del tutto riduttivo: occupa una sede storicamente emblematica per l’intera isola, un complesso che domina uno dei fondamentali accessi alla trinacria, ricordato dagli uomini fin dall’alba dei tempi: una torre di avvistamento e difesa potenziata dagli inglesi, realizzata in precedenza dagli spagnoli nel XV secolo, che ha ricalcato i perimetri imperiali, che occupavano arcinoti scenari della mitologia greca …che al mercato mio padre comprò!

Attraversando l’ingresso del MACHO non si immagina cosa si andrà a scoprire. Mi accoglie il dottor Giacomo, un biologo, che principia a raccontare con passione e competenza del monumentale Giove Peloro che proteggeva il faro di epoca romana (del quale è stato rinvenuto il basamento) che fu ritratto in una moneta rinvenuta in situ, di tutte le modifiche e aggiunte apportate dominazione dopo dominazione nel complesso monumentale. E si passa da tempi scanditi dall’uomo, misurati in mesi, anni e secoli, a quella che l’umanità non misurare in una sola vita: quella delle geomorfologie dei fondali, delle eterne correnti marine e delle evoluzioni delle specie animali, sorprendendo con risultati di studi scientifici che solo nelle profondità di questa lingua d’acqua era possibile studiare.

Non basta. Non puoi capire lo Stretto se non ti ci immergi, non ci crederai mai se non vedi con i tuoi occhi. L’allestimento di una sala immersiva interattiva in cui toccare le pareti ti mette a tu per tu con gli abitanti degli abissi, risveglia la meraviglia infantile. Non ci vengono risparmiate le nozioni base riguardo al funzionamento del software che ti permette di tuffarti a metri di profondità giocando con seppie e pesci abissali, programmato esclusivamente per questa sala da ricercatori siciliani, e di quello del nostro cervello che, per uno strano processo, ci fa armonizzare anche i suoni disarmonici prodotti a caso attraverso i nostri movimenti in questo spazio.
Siamo passati da archeologia, storia, architettura, biologia marina, geologia, informatica, psicologia, ora arriviamo all’arte contemporanea.
Nato dalla collaborazione tra il parco letterario e la storica dell’arte Martina Corgnati, la collezione campiona linguaggi creativi mediterranei, messaggi che vanno dal serio al faceto passando anche per il documentario. Una raccolta frutto di donazioni della curatrice o degli stessi artisti, spesso a seguito di mostre meridionali per le quali le opere erano state studiate, e che nel meridione trovano la loro ideale contestualizzazione. Si inizia dall’espressione italiana dell’astrattismo, nel suo percorso che va dagli anni 50 alla fine del secolo scorso, attraverso le opere di Agostino Ferrari, Gianfranco Anastasio, Gianfranco D’Alonzo, Riccardo Dalisi.

Si sconfina dallo stivale con esemplari fotografici, di artisti egiziani che indagano in maniera diversa la psiche umana, in maniera più introspettiva (come in The water di Moataz Nasr) o più clinica nel caso degli scatti di Nermine Hammam che ritraggono un ospedale psichiatrico del Cairo. L’emigrazione è un altro dei temi che hanno sensibilizzato gli artisti in esposizione. Installazione site specific del libanese Salah Saouli racconta dei legami familiari tra chi è costretto a spostarsi per il mondo, nodi rossi che assicurano piccoli messaggi purché non si disperdano nel rumore delle folle.

L’emigrazione affrontata con lo sguardo di chi l’ha vissuta, riprodotta in chiave concettuale o di reportage, come la video installazione di un’esperienza diretta di chi le frontiere tra Israele e Palestina le ha valicate: ci si immedesima nella vita messa a repentaglio di Emily Jacir, immortalata in un filmato rubato dal suo bagaglio. Della questione femminile si tratta specificamente attraverso altre due opere, due anime contrapposte e opposte.

You will be killed di Amal Kenawi, parte da un disegno su tela sul quale proietta un evoluzione di dettagli che le si sovrappongono, raccontando lo strazio del corpo femminile in regime islamico, uno strazio che mira a ledere la dignità, come un incubo di visioni orrorifiche con continui rimandi anche alla storia dell’arte occidentale che esalta e inflaziona il fisico delle donne. Il rovescio della medaglia è nell’universo ovattato di sfondi scuri in cui si stagliano con gran risalto oggetti coloratissimi che rimandano a fiabe le cui protagoniste vengono ritratte solo per rimandi mnemonici, attributi tipici delle eroine con le cui storie siamo cresciuti. Ma loro dove sono? Sono in viaggio nella loro vita. Questo il percorso in scatti proposto da Natividad Navalon.

La quarta sala è stata dettata da Emilio Isgrò, particolare per particolare, la disposizione dell’installazione, le luci ed ogni singolo dettaglio. La stanza è interamente occupata da tre pianoforti assaltati da decalcomanie di formiche che invadono pavimenti, mura, e spartiti cancellandone le melodie: è la natura che prevale, domina l’artificio umano, è viva e distruttiva. L’opera è dedicata a Riccardo Casalaina, musicista messinese, tragicamente morto a soli 27 anni durante il grande sisma del 1908, inaugurata per la prima volta nella sua versione integrale (che prevedeva 15 strumenti) l’anno del centenario del cataclisma.

Non a caso ho specificato che l’ultima sala che ci è stata mostrata era la numero 4, il motivo è che collegandomi al esaustivo sito della fondazione, mi rendo conto che gli ambienti espositivi sono in realtà 8 e il perché mi sia stata negata metà della collezione non mi è ancora chiaro. Aperta ormai la parentesi in cui faccio, di nome e di fatto, LA CRITICONA, non mi capacito del fatto che non ci siano degli orari e giorni fissi e costanti di apertura. Mi spiego: per accedere a questo museo, importantissimo come abbiamo visto, ho approfittato del Metamorfosi Festival che prevedeva un calendario di eventi tra cui anche l’apertura del complesso. Domandando prima ad una, poi all’altra guida (un’architetto altrettanto brava) mi hanno confermato che vengono aperte a gruppi, o ad avventori che li contattino appositamente per la visita e prevalentemente nei mesi di primavera ed estate. Ma perché questa approssimazione? Perché rendere difficoltosa la fruizione di un bene così valido?
Concludendo il MACHO è davvero un fico da paura, che non tradisce le apparenze e sprigiona tutto il suo fascino mediterraneo, ma, a causa di una scarsa pubblicizzazione e delle difficoltà di accesso, purtroppo viene confuso per “un bello che non balla”.
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